POESIA IN UN’IMMAGINE | Eleonora Manca alla Galleria Moitre di Torino

25/03/2019 Off By Tecla
POESIA IN UN’IMMAGINE | Eleonora Manca alla Galleria Moitre di Torino

Eleonora Manca è una visual artist conosciuta nel panorama internazionale. Nata in Toscana, ma torinese d’adozione, sviluppa la sua ricerca attraverso la fotografia, il video e la parola scritta. Le sue opere sono delle poesie visive che affrontano tre temi: la memoria, la memoria del corpo e la metamorfosi.

Vedersi visti è il titolo della sua personale alla Galleria Moitre di Torino realizzata in collaborazione con il Sottodiciotto Film Festival, quest’anno incentrato sull’auto-rappresentazione. 

Questa intervista è un tour della mostra mano nella mano con l’artista. Un viaggio alla scoperta di ciò che siamo, delle nostre radici e di quello che potremo essere in futuro. Le parole di Eleonora Manca sono così belle che ho cercato di conservarle integralmente.

Vedersi visti

Raccontaci la tua mostra alla Galleria Moitre di Torino ideata per il Sottodiciotto Film Festival 2019.

La mostra prende il titolo da un progetto, al quale sto lavorando da un anno e mezzo, con l’immagine fotografica inscritta in un cerchio. Quando mi hanno invitata a esporre in occasione del Sottodiciotto Film Festival, ho deciso che era importante sottolineare il discorso del “vedersi visti”. Perché nonostante nelle foto e nei video ci sia io, paradossalmente io non credo nell’autoritratto.

Credo che si possano restituire dei momenti del sé, ma non che una foto o un dipinto possano mostrare appieno ciò che siamo o non siamo. Inoltre a me piace lavorare esclusivamente sul dettaglio, perché non ho mai avuto su niente la visione d’insieme. Alla fin fine solo i dettagli possono eventualmente dare una rappresentazione del sé. E dico “sé” e non “io”, perché c’è una bella differenza. “Io è un altro”, diceva Rimbaud.

Lo specchio dotato di memoria

“Vedersi visti” è progetto site specific che presenta diverse opere concettualmente legate tra loro. Dove inizia il percorso della mostra?

Di solito non mi piace indirizzare lo spettatore. Ma se proprio vogliamo trovarlo, l’inizio del percorso è questa domanda: 

Come sei quando nessuno ti guarda?

È un bel problema! Probabilmente questo è il nostro vero essere. Perché anche nell’istante in cui ci guardiamo allo specchio c’è già un’intenzionalità. Io dico sempre che bisognerebbe andare dietro allo specchio. 

Quando lavoro, sia in foto sia in video, performo. Perciò mi ritrovo ad avere di un’unica azione anche 3000 scatti, che poi scelgo. Quelle che nascono sono sempre delle micro narrazioni.

Nella prima serie fotografica mi ero cosparsa le mani d’inchiostro per lasciare un’impronta, dopodiché le ho passate anche sul viso. Inoltre c’è la compenetrazione delle mie mani con il volto scheggiato di una statua di gesso. Nei dettagli ha sempre qualcosa di sbagliato o di incompiuto. Trovo che sia molto interessante lavorare sul difetto. 

Invece queste due si intitolano Sineddoche. La parte per il tutto e il tutto per la parte. Una figura retorica molto importante nel mio lavoro, così come il concetto di sinestesia. Infatti non esiste un’unica percezione, ma esistono le percezioni. Vedersi visti è un progetto composto da tante domande. Non mi interessano quasi mai le risposte. Infatti è attraverso le domande che noi possiamo cambiare il nostro punto di vista.

Penso che l’arte sia una grande forma di comunicazione. I pensieri più sofisticati arrivano in un secondo momento, perciò mi piace dare dei messaggi semplici. Il primo quadro mostra degli elementi puri che identificano una persona: le impronte digitali e i capelli che contengono il DNA.

Nel secondo invece ci sono questi rami che sembrano delle arterie. Contemporaneamente c’è una mia azione, fatta dopo che avevo immerso le mani nella terra. Quest’opera rimanda anche al concetto di radici. Il principio è sempre l’unione: le arterie uniscono, così come le mani, eccetera. 

Prove di un diario n. 2 è la seconda versione di un lavoro che ho presentato in autunno a The Others Art Fair. È un cuore avvolto in fili neri e accompagnato da un testo. Quest’ultimo spiega l’origine del verbo “ricordare”, che significa letteralmente “rimettere nel cuore”. 

Infatti secondo Aristotele e gli antichi Greci il cuore era sede della memoria. 

I fili sono un omaggio all’opera di Maria Lai. Ultimamente li sto utilizzando tantissimo. Soprattutto nei libri d’artista e nelle opere di poesia visiva, perché c’è il discorso di “tessere le memorie”. 

Qui ho preso una giacca che apparteneva al mio bisnonno paterno. L’ho appesa a rovescio per invitare lo spettatore a cambiare il suo punto di vista. E l’ho messa in relazione con due ritratti delle persone che mi hanno cresciuta, cioè i miei nonni materni.

Sono foto analogiche che appartengono al mio archivio familiare. E mi piacciono particolarmente, perché sono sbagliate. La foto di mia nonna in piscina è bruciata, mentre in quella di mio nonno, ex atleta, che corre si vedono i flash. Quest’opera è un vedersi visti, ma anche un atto d’amore nei loro confronti.

Come dicevamo queste sono alcune delle mie 4000 e più foto inscritte in un cerchio. L’idea del cerchio può avere sia una accezione negativa sia positiva. Infatti ci sembra quasi di essere spiati, abbiamo la sensazione di dover proteggere la nostra intimità. Ma allo stesso tempo è anche un ridurre il sé al dettaglio.

Questo è un momento molto intimo, molto segreto anche. Sacro soprattutto, perché il sonno è sacro. Anzi, c’è chi dice che riusciamo ad essere noi stessi veramente solo dormendo.

Ci sono ancora le mie mani che interagiscono con quella che è la mia dote, perché sono le lenzuola delle mie trisavole. Quindi è anche un omaggio al matriarcale, alle memorie che passano di donna in donna. Che alla fine sono anche le più preziose, secondo me. 

Arriviamo a questo che ha una storia molto bella. Un giorno mia nonna mi ha regalato tre grosse scatole con gli album di famiglia. Foto vecchissime che ha scattato mio nonno quando non ero ancora nata. Questi sono lavori di poesia visiva, dove ricompare il filo che tesse le memorie e la parola. 

Per me parola e immagine sono entrambe icone. La parola può essere un’immagine e contemporaneamente l’immagine può far nascere delle parole: non vedo differenza. Se non potessi scrivere mi sentirei mutilata al pari di non poter lavorare sulle immagini.

Invece questo è un dono che mi è stato fatto da un curatore. Mi ha regalato una scatola di diapositive che aveva acquistato in un mercatino a Berlino. 

E mi ha detto: “Solamente tu puoi farci un lavoro”. 

Con queste diapositive si possono costruire tante storie, perché ignoriamo totalmente chi siano queste persone. Sono immagini delicatissime che ho voluto mettere in due lightbox dalla luce soffusa.

Nella prima mi pare di aver intuito che questo è il padre del bambino biondo. Il suo volto è all’interno di una sagoma cartonata. Quindi nella logica della rappresentazione del sé, delle maschere, di ciò che siamo oppure no, ho trovato questa immagine interessantissima.

Invece nella logica del vedersi visti, nella seconda lightbox, ho pensato di unire queste tre foto. Il bambino non guarda la macchina fotografica.

Mi viene in mente la poesia che compare ne Il cielo sopra Berlino, quando il bambino “non faceva facce da fotografo”.

L’ho messa in relazione con una foto che ha scattato mio nonno. Sono i piedi di mia madre e mia zia. Perché concettualmente rimanda all’idea dei passi e del viaggio.

Conclude la prima sala uno stralcio del mio diario. L’ho associato a questa miniatura molto antica che ho comprato in un mercatino dell’antiquariato a Pietrasanta in Toscana. Ho dipinto la cornice di bianco e con dei trasferelli ho scritto “time”, tempo. L’ho appesa al contrario, perché tante volte le linee del volto si vedono meglio a rovescio.

Immagini in movimento

Invece la seconda sala è dedicata alle tue installazioni video…

Sì, oltre alle fotografie faccio anche tanti video. Io non mi definisco né fotografa né video artista. A me interessa lavorare sull’immagine. Uso il mio corpo, perché banalmente ce l’ho a disposizione. Ma non mi interessa fare un lavoro su di me.

I video ai lati sono site specific. Li ho realizzati apposta per questa mostra. Sono delle azioni performative ridotte al dettaglio. I miei movimenti sono stati rallentati al massimo per ottenere un’assoluta spersonalizzazione. Tanto che in alcuni momenti, soprattutto nel collo, l’anatomia diventa quasi astratta, e quindi archetipale. Non è più il mio corpo, ma è un corpo.

Sulla parete di fondo c’è un video al quale tengo molto, perché lo devo a una mia amica. Le hanno regalato dei bozzoli e ha assistito alla nascita di tante falene. Dalla California mi ha mandato in presa diretta questi piccoli video, che si legano al mio lavoro sulla metamorfosi. 

Quindi li ho utilizzati per montare questo video, che si chiama Data in luce. Rispetto agli altri video installativi, questo è un video mono canale. Ha una sua narrazione, perciò andrebbe visto dall’inizio alla fine. L’ho messo in relazione con questa foto delle mie mani tra i rovi.

Queste sono un paio di scarpe in movimento, e quindi c’è sempre l’idea dell’espansione. Sono accompagnate a queste piccole foto, tratte sempre dal mio archivio, che ripete sempre il tema di vedersi visti attraverso i dettagli.

Qui c’è un altro lavoro di poesia visiva. Una polaroid che ho scattato in Toscana, vicino a Volterra, insieme a un poster che ho strappato da un muro alla stazione di Torino Porta Nuova. 

L’ho associato a questi alberi, perché il movimento ascensionale secondo me ha a che fare con la metamorfosi. Mi piace che ci sia questa idea di cambiamento. Poi compaiono ancora i fili e la carta, un altro elemento che uso tantissimo, specie nei miei taccuini e libri d’artista. 

Il tempo per riflettere

All’inizio di questo percorso mi hai detto che le tue opere devono indurre alla riflessione. Che tipo di domande vorresti suscitare nel pubblico?

Penso che ognuno abbia le proprie domande. Interrogarsi significa fermarsi un attimo. E allora magari fare un passo indietro e decidere di farne un altro in avanti. Mi hanno insegnato a dare senso ed efficacia a ciò che sono per adottare di volta in volta il giusto passo. 

Mi piace l’idea che di fronte a un’opera, a una parola, qualcuno dica:

“Aspetta un attimo mi hai fatto venire in mente qualcosa, ed ora ci voglio riflettere con il mio tempo”.

Note

L’intervista mi è stata rilasciata da Eleonora Manca il 16 marzo 2019.